Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
Umberto Bossi gode meritatamente fama di ottimo giocatore, ma
nell’estate 2010 si trova alle prese col bluff più grosso della sua
carriera politica: la realizzazione dello Stato federale, il mito padano
impossibile da trasferire nella realtà.
Se domenica sera è incespicato in una promessa temeraria –“girare nelle
casse dei nostri comuni l’Irpef e anche l’Iva”- con successiva,
maldestra smentita, è perché il fondatore della Lega deve fronteggiare
un malcontento diffuso sul territorio che governa ormai da quasi
vent’anni. Non a caso si è lasciato trasportare dall’impeto nel corso di
un comizio dedicato a negare le divisioni interne al partito, esplose
per la prima volta pubblicamente. A scatenarle è stato il caso di Angelo
Ciocca, recordman delle preferenze in consiglio regionale per il
Carroccio, i cui contatti col capoclan calabrese Pino Neri sono stati
rivelati dall’inchiesta della Procura di Milano sulla ‘ndrangheta. Il
capogruppo alla Camera, Marco Reguzzoni ha puntato il dito contro il
segretario della Lega lombarda Giancarlo Giorgetti, accusandolo di avere
protetto Ciocca. In precedenza era stato Calderoli a tirare per la
giacca lo stesso Bossi, ricordandogli di avere brindato alla nomina
ministeriale di Brancher, salvo poi prenderne le distanze a Pontida.
Il disegno di lungo periodo del senatur, mirante a rastrellare l’eredità
di Berlusconi nel Nord Italia, deve fare i conti con la raffica di
scandali in cui si dibatte il Pdl. Viste le circostanze, come escludere a
priori la necessità di una separazione rapida dall’alleato di governo?
Il casus belli, se si rendesse necessario, non potrebbe che riguardare
l’accusa di inadempienza in materia di federalismo fiscale.
Ma è proprio sulla rotta strategica dalla Lega che affiorano gli scogli
più insidiosi. Da mesi i sindaci del Nord danno vita a un movimento
trasversale di protesta contro i vincoli del patto di stabilità che
impedisce anche ai più virtuosi tra loro di spendere le risorse
disponibili nel proprio bilancio. Tremonti e Calderoli osservano con
preoccupazione la rivolta che monta, ma ormai non regge più l’argomento
secondo cui quel patto è un lascito del governo Prodi. Quando l’8 aprile
scorso 510 sindaci lombardi consegnarono simbolicamente le fasce
tricolori alla Prefettura di Milano, a guidarli era il primo cittadino
di Varese, il leghista Attilio Fontana. E come se non bastasse una
ricerca della Commissione paritetica sul federalismo fiscale ha rivelato
nei giorni scorsi che proprio la Lombardia, avamposto degli
amministratori leghisti, detiene il primato delle tasse locali
(regionali, provinciali, comunali) a carico dei suoi cittadini: 2697
euro cadauno all’anno. Un bilancio imbarazzante per un partito che
chiede voti contro gli eccessi della fiscalità.
Più tasse e più corruzione nella culla del movimento. Non c’è “quadra”
che tenga. Bossi è costretto a scartare, ma non sa ancora bene in quale
direzione. L’acuirsi delle disuguaglianze sociali rende obsoleta la
teoria leghista secondo cui la giustizia fiscale potrebbe sopraggiungere
attraverso una mera redistribuzione di natura territoriale. Ma
diventare il partito di rappresentanza dello scontento popolare, una
sorta di “sinistra della destra”, è reso arduo dalla natura
interclassista a antimeridionalista della Lega. Che nel frattempo
rischia di perdere il Piemonte per il riconteggio dei voti depurati
dalle liste fasulle decretato dal Tar. E’ costretta a difendere i “suoi”
allevatori che non vogliono pagare le multe dell’Ue per l’infrazione
delle quote latte, a costo di sopportare la reazione degli onesti
beffati, promossa dalla Coldiretti con il sostegno del “nemico” Galan.
Anche la Fiat che delocalizza gli stabilimenti all’estero dopo aver
rinunciato agli incentivi statali, deteriora il rapporto acquisito di
recente con settori di elettorato operaio.
Per la verità i cittadini del Nord che votano Lega non si ecciterebbero
neppure, in simili frangenti, di fronte al varo dei decreti delegati del
federalismo fiscale: si tratta infatti di un’araba fenice dai contorni
imperscrutabili. La traduzione in vulgata popolare del disegno leghista
funziona, certo, nei comizi: “I nostri soldi devono rimanere qui sul
nostro territorio”. Ma siccome Tremonti segnala ogni giorno che i soldi
non ci sono, e che le tasse non possono diminuire, la disillusione
sopraggiunge immediata.
Bossi lo sa benissimo, il suo messaggio politico è intessuto di promesse
subliminali quasi mai mantenute di tutela degli interessi locali e
delle tradizioni. L’economia non è mai stata, e ancor meno potrà essere
oggi, il suo cavallo di battaglia. Per questo è prevedibile che si debba
assistere a una riedizione della Lega estremista, con la difficoltà
aggiuntiva che a eccitare gli animi stavolta saranno chiamati uomini
direttamente impegnati nella gestione di responsabilità di governo.
Oltretutto in competizione fra loro, perché nessuno crede che il
leghismo possa trasmettersi per vie dinastiche nelle esili mani di Renzo
la trota.