«Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d’acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l’affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il “cervello” di un carro armato. La capisci male prima d’incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l’incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell’incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli “altri”, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati» (da PHILIP ROTH, “PASTORALE AMERICANA”, 1997, I, I – Edizione Gruppo Editoriale L’Espresso, 2003, pp. 44-45).
Giorno: 16 agosto 2014
Inno a Demetra
Demetra dalle belle chiome, dea, veneranda, io comincio a cantare,
e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo rapì;
lo concedeva Zeus dal tuono profondo, che vede lontano,
eludendo Demetra dalla spada d’oro, dea delle splendide messi
mentre giocava con le fanciulle dal florido seno, figlie di Oceano,
e coglieva fiori: rose, croco, e le belle viole,
sul tenero prato; e le iridi e il giacinto;
e il narciso, che aveva generato, insidia per la fanciulla dal roseo volto,
la Terra, per volere di Zeus compiacendo il dio che molti uomini accoglie.
Mirabile fiore raggiante, spettacolo prodigioso, quel giorno per tutti:
dalla sua radice erano sbocciati cento fiori
e all’effluvio fragrante tutto l’ampio cielo, in alto,
e tutta la terra sorrideva, e i salsi flutti del mare.
Attonita, ella protese le due mani insieme
per cogliere il bel giocattolo: ma si aprì la terra dalle ampie strade
nella pianura di Nisa, e ne sorse il dio che molti uomini accoglie,
il figlio di Crono, che ha molti nomi, con i cavalli immortali.
E afferrata la dea, sul suo carro d’oro, riluttante, in lacrime, la trascinava via;
ed ella gettava alte grida invocando il padre Cronide, eccelso e possente.
Ma nessuno degli immortali o degli uomini mortali
udì la sua voce e nemmeno gli olivi dagli splendidi frutti.
Solo la figlia di Perse, che ha candida mente,
Ecate dal diadema luminoso, nel suo antro,
e il divino Elio, splendido figlio di Iperione,
udivano la fanciulla che invocava il padre Cronide; ma questi, in disparte
lontano dagli dei sedeva nel tempio dalle molte preghiere,
ricevendo belle offerte dagli uomini mortali.
Intanto, secondo il volere di Zeus, portava con sé la dea riluttante
colui che è signore di molti, e molti uomini accoglie, il fratello del padre,
il figlio di Crono, che ha molti nomi, con i cavalli immortali.
Fin quando la dea scorgeva la terra e il cielo stellato,
il mare pescoso dalle vaste correnti,
e i raggi del sole, e ancora si attendeva di rivedere la cara madre
e la stirpe degli dei che vivono in eterno,
sebbene ella fosse angosciata, la speranza le confortava il nobile cuore.
Risuonarono le vette dei monti, e gli abissi del mare,
alla sua voce immortale, e l’udì la madre veneranda.
Un acuto dolore la colse nell’animo: le bende, che le chiome
immortali cingevano, lacerava con le sue mani,
si gettava sulle spalle un cupo velo,
e si slanciò sopra la terra e il mare, come un uccello,
alla ricerca. Ma nessuno degli dei
e degli uomini mortali voleva dirle la verità,
e nessuno degli uccelli venne a lei come verace messaggero.
Per nove giorni, allora, la veneranda Demetra sulla terra
vagava stringendo nelle mani fiaccole ardenti:
né mai d’ambrosia e di nettare, dolce bevanda,
si nutriva, assorta nel suo dolore; né si immergeva in lavacri.
Ma quando infine giunse per la decima volta la fulgente aurora
le venne incontro Ecate reggendo con la mano una torcia;
e, desiderosa di informarla, le rivolse la parola, e disse:
“Demetra veneranda, apportatrice di messi, dai magnifici doni,
chi fra gli dei celesti o fra gli uomini mortali
ha rapito Persefone, e ha gettato l’angoscia nel tuo cuore?
Infatti, io ho udito le grida ma non ho visto con i miei occhi
chi fosse il rapitore: ti ho detto tutto, in breve e sinceramente”.
Così dunque parlò Ecate; e non le rispose
la figlia di Rea dalle belle chiome; invece, rapidamente, con lei
mosse, stringendo nelle mani fiaccole ardenti.
E raggiunsero Elio, che vigila sugli dei e sugli uomini;
si fermarono dinanzi ai suoi cavalli, e lo interrogò la divina fra le dee:
“Elio, tu almeno abbi rispetto per una dea, quale io sono, se mai
per le mie parole o i miei fatti fui gradita al tuo cuore e al tuo animo.
La figlia che ho generato, mio dolce germoglio, dal volto luminoso […]
ho udito il suo alto grido attraverso il limpido etere,
come se subisse violenza: ma non l’ho vista con i miei occhi.
Ma poiché tu certo, su tutta la terra e sul mare
dall’etere divino guardi con i tuoi raggi,
sinceramente dimmi se mai hai veduto
chi la mia figlia diletta ha preso a forza, contro il suo volere, mentre ero lontana,
ed è fuggito: sia uno degli dei o degli uomini mortali”…
(Attribuito ad Omero)
La Sicilia prima e oltre la Mafia
Storia dei Giganti
Le origini di Messina
Le statue derivano dai giganti processionali dell’antica tradizione spagnola, ancora oggi presenti in molte zone della Spagna e usati in occasione di varie festività, come a Tarragona per la festa di Santa Tecla, o durante la fiesta Mayor de Reus che si svolge il giorno di San Pietro Reus. Il contatto con la dominazione catalana fece pervenire la tradizione dei giganti processionali che si è diffusa anche in Sicilia ed in Calabria, ed oggi è legata al culto della Vergine Maria, come nel caso dei giganti Mata e Grifone della festa della Assunta a Messina o dei giganti Kronos e Mytia della festa della Madonna della Luce di Mistretta.
Inoltre i due colossi di cartapesta, rappresentano e ricordano allegoricamente la conquista della libertà del popolo calabrese dai predoni saraceni e turchi, che per secoli devastarono la Calabria apportando ovunque lutti e rovine. Il Gigante nero, chiamato Grifone, raffigura il truce saraceno e, nelle sembianze di una bella e prosperosa popolana, Mata, ne era la sua preda.
Nel corso della storia i due giganti Mata e Grifone sono stati identificati con varie figure mitologiche, ad esempio Kronos e Rhea, Cam e Rea, Zanclo e Rea, Saturno e Cibele; la leggenda più famosa narra che ai tempi delle invasioni saracene in Sicilia, attorno al 970 d.C., un invasore moro di nome Hassas Ibn-Hammar, grandissimo, sbarcato a Messina si innamorò della cammarota Marta figlia di re Cosimo II da Casteluccio. Il nome Marta, dialettizzato, diventa Mata. Il pirata chiese la mano della donna, ma le loro nozze furono celebrate solo dopo la conversione del moro al cristianesimo: il suo nome da Hassan diventò quindi Grifo, o meglio, Grifone per la sua mole. Mata e Grifone prosperarono ed ebbero moltissimi figli: i messinesi.
Questa versione è infatti confermata dalle scritture di alcuni autorevoli storici antichi, Mata e Grifone sarebbero i mitici fondatori di Messina: Saturno Egizio e la moglie Rea o Cibale. Con il passare del tempo, al nome di Saturno Egizio venne aggiunto il nome di Zancle (falce), o per aver fondato la città siciliana in un’insenatura di mare a forma di falce, o perché a lui sarebbe attribuita l’invenzione dell’attrezzo agricolo per mietere il grano. Per tale motivo la città peloritana, prima ancora che le venisse imposto l’odierno nome dal conquistatore greco Messena, venne per molti secoli chiamata Zancle in onore del suo mitico fondatore.
La più attendibile storia sulla nascita dei Giganti è però legata ad un fatto storico realmente accaduto nel 1190. In tale anno, Riccardo I Re d’Inghilterra, più comunemente noto col nome di Riccardo Cuor di Leone, giunse a Messina da dove doveva muovere la Terza crociata che era stata indetta da papa Gregorio VIII per liberare dai musulmani il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Durante la permanenza in città il monarca si accorse che i messinesi erano privi della libertà perché ancora oppressi dai greci bizantini. Essi infatti si erano impossessati di tutte le cariche politiche, civili ed amministrative gestendo la giustizia a loro piacimento con provvedimenti impopolari ed inappellabili emanati dalla sicura fortezza di San Salvatore, strategicamente posta all’imbocco del porto. Il Re d’Inghilterra, non volendo usare la forza per soggiogarli, pensò di dimostrare la sua potenza facendo costruire sul colle di Roccaguelfonia, situato proprio di fronte alla fortezza, un imponente ed inespugnabile castello. Prima ancora che venisse ultimato, il popolo lo adottò battezzandolo col nome di Matagriffon coniando Mata, da Macta (ammazza) e, Griffon da Grifone (ladro). I greci bizantini dimostrarono di aver inteso il messaggio, abbandonando per sempre la città, così che il popolo Messinese riacquistò la tanto sospirata libertà.
Per festeggiare l’evento e tramandarlo alle generazioni future, i messinesi portarono nelle piazze il castello di Matagriffon in cartapesta per poi sdoppiarlo nel nome e con le sembianze dei fondatori della città. Li chiamarono “‘A Gigantissa” e “U Giganti”, ma anche Mata e Grifone. In tal modo la colossale coppia divenne l’emblema della loro libertà e l’omaggio agli antichi fondatori. Ai Colossi, rappresentati su due cavalli finemente addobbati, venne nel tempo accostato un finto cammello che veniva bruciato nelle piazze al termine delle feste di mezz’agosto, per simboleggiare la sconfitta degli empi dominatori saraceni scacciati nel 1060 dalla città dal Conte Ruggero I il Normanno.
L’adozione dell’usanza in Calabria
I Giganti, quali simbolo di libertà, vennero ben presto adottati in molte città siciliane e da alcune della fascia costiera tirrenica ed aspromontana della Calabria che, come Messina, avevano profondamente subito le devastazioni saracene e turche. Mentre nel tempo scomparvero a Reggio Calabria ed in altri centri, sopravvivono ancora oggi a Polistena, Tropea, Ricadi, Spilinga, Dasà, Zambrone, San Costantino Calabro, Melicucco, Brognaturo, Cittanova, Seminara e appunto Palmi.
Per ricordare il condottiero normanno, durante la “sfilata dei Giganti” di Palmi partecipa anche un finto cavallo di cartapesta, mentre in altri centri è presente un cammello quale simbolo dei saraceni.
(Fonte Wikipedia)
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