Chi mi conosce bene sa che per mia natura non sono un tipo che si “piange addosso”. Nonostante la vita non sia stata per nulla tenera con me, fin dalla mia nascita, ho sempre pensato che ci fosse chi stava peggio di me. Chi avesse problemi più grossi dei miei. Non so se è stata la vita ad insegnarmelo o se sia stata “condizionata” in questa mia strutturazione della personalità dall’ambiente che mi circondava e mi circonda. Di certo c’è che, spesso e volentieri, mi sono ritrovata ad essere “insofferente” a certi lamenti, a certi piagnistei, e non per mancanza di empatia ma proprio perché il ragionamento che faccio per me lo trasferisco anche agli altri. Oggi però nell’apprendere delle ultime scosse telluriche, degli infiniti crolli ad Amatrice, che vanno a incrementare i disagi di quella popolazione, non posso che provare una fitta al cuore. Già il freddo di questi giorni mi ha fatto andare con la mente a chi si trova a vivere nelle roulotte, nei container, tra le raffiche di neve e le ondate di gelo; così come a tutti quegli immigrati che, nonostante tutto e tutti, si accalcano sulle nostre spiagge, congelati e assiderati, quando hanno resistito alla Morte, e allora mi dico che si, loro hanno tutto il diritto di lamentarsi e questa volta la lettura dei “Lamenti di Giobbe” non mi aiuta a ritrovare la serenità per loro. Cerco di immaginarmi nei loro panni e mi dico che no, non riesco ad entrarci. Troppo grandi per me.
“Così, al posto del cibo entra il mio gemito,
e i miei ruggiti sgorgano come acqua,
perché ciò che temo mi accade
e quel che mi spaventa mi raggiunge.
Non ho tranquillità, non ho requie,
non ho riposo e viene il tormento!” [dal Lamento di Giobbe]
Mi viene in mente un vecchio detto ripreso dagli studi per un mio esame universitario: Storia delle Tradizioni popolari, che diceva: “U cani muzzica sempri ‘u strazzatu”. [Il cane morde sempre lo strappato, il poveraccio]:
Così è, la cultura popolare ha sempre avuto la vista lunga.
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