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Perché non possiamo alzare bandiera bianca


mcachedl_B1RrC2Non dobbiamo arrenderci. Non dobbiamo mollare tutto e non possiamo né dobbiamo farlo per quella generazione di italiani che va crescendo, che si va formando. Che è ancora nelle nostre scuole. Scuole fatiscenti, con professori ignoranti, come vuole la pubblica opinione e che, nonostante tutto, domani sono pronti a rimboccarsi le maniche a stare piegati per ore sui banchi di scuola facendosi venire la scoliosi, la lordosi, la cervicale e rodendosi fegato e budella con genitori che scaricano anche le loro responsabilità sui docenti.

Ma l’Umanità, l’Italia, si può salvare solo se lo Stato scommette sui giovani e investe in Formazione e Ricerca. Se lo stato la smette di fare le pulci alla Scuola Pubblica e gli ridà quella dignità che spetta a chi fa “Cultura”, a chi trasmette conoscenza.
Se i cittadini TUTTI la smettono di inveire contro i professori offendendoli continuamente e tacciandoli di tutto. E’ vero, nella scuola ci sono molti che dovrebbero tornare a fare formazione ma è anche vero che bisogna riportare sui banchi di scuola prima di tutto i genitori.
In Italia le statistiche dicono che si legge poco e quello che si legge non sempre fa cultura, inoltre, molti pensano di capire cosa si dice solo perché sanno leggere e non riescono ad entrare nell’ottica che una cosa è il pensiero e un’altra le parole che cercano di spiegare il pensiero. Tutto ciò che si trova scritto sottostà alla logica della “libera interpretazione”.

Ognuno di noi da alle parole il senso che gli trova e non ci si rende conto che anche quello è sbagliato, specialmente nella nostra lingua dove per indicare un nome, un’azione, usiamo più terminologie credendo che una vale l’altra.
Invece NON è così e che non sia così ne ho la prova tangibile tutti i giorni, quando mio figlio, sordo, mi chiede la differenza di significato e mi dice: Spiegami in quale contesto devo usare questa parola e in quale contesto devo usarne un’altra.  E allora devo fargli gli esempi pratici, concreti, e non sempre è facile.Perché le parole hanno a volte  un significato reale e un altro simbolico e allora bisogna cercare nel dizionario la terminologia adeguata. L’altro ieri ad esempio mi ha chiesto di dargli spiegazioni in merito al verbo “subire” che ha due accezioni: “ho subito” , passato remoto del verbo subire, e “sùbito” . Essendo sordo gravissimo ha difficoltà a discriminare la caduta dell’ accento e presta poca attenzione se davanti alla parola c’è l’ausiliare o no…

Questo per dire quanto sia importante “Istruire” e come oggi, più che mai, si renda necessario investire nella scuola. Ed investire non solo in risorse umane ma anche didattiche. Attrezzare le scuole di laboratori scientifici (siano macchinari che  attrezzature didattiche) dove gli alunni possono fare per imparare secondo la metodologia dell’Attivismo Pedagogico che ebbe i suoi massimi rappresentanti in Dewey, Froebel… Montessori. Non sono sufficienti le LIM e le aule multimediali se poi non si ha un’ottima connessione ad internet. Se non c’è la banda larga, se non ci sono dei potenti router che consentono ai docenti di lavorare con gli alunni nella propria classe. L’anno scorso, e anche l’anno precedente, per utilizzare internet collegavo il portatile al mio cellulare, quindi a spese MIE, e non dello stato, cercavo di rendere più stimolante l’attività didattica in classe.

Chiedo a tutti quelli che inveiscono contro i docenti: Vi sembra giusto? E’ giusto che noi docenti dobbiamo pagarci anche la connessione ad internet se vogliamo stare al passo coi tempi?
Poi pubblicano le statistiche a cap’ mbrella dicono a Napoli. Come pretendete che i Vostri figli siano informati e conoscano tutte le nuove scoperte scientifiche se poi non sono messi in condizioni di vederle, sperimentarle? Se non gli si danno i mezzi e le chiavi per fare ricerca ed approfondimento? Io so che ci sono valenti docenti, ottimi insegnanti, che prima di andare in classe studiano la lezione per conto proprio e guai se così non fosse!Ma quanto investe lo stato nella formazione e l’aggiornamento dei docenti? Ve lo siete mai chiesto? NIENTE!

Non spende una beata cippa!

Ed allora perché non iniziate a scendere in campo coi docenti ed a reclamare, non per noi ma per i vostri figli, i giusti finanziamenti alla cultura? Se l’Italia sta affondando la colpa non è della Scuola ma di TUTTI gli Italiani che si riempiono la bocca chiamandoci: Ammortizzatori sociali.

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Cultura dominante e cultura subalterna


pacellim2bSu FB sono intervenuta nel post di una carissima amica in merito all’affiggere nelle classi scolastiche il crocefisso, come simbolo religioso, oppure no, in relazione alle polemiche scatenate dagli islamisti. Riposto il mio intervento al riguardo:
… Leggo solo adesso la tua risposta, scusami. Mi sa che la pensiamo uguale lì dove dici che la mezzaluna a te non crea disagio, idem, come a me non crea disagio avere o non avere il crocefisso in classe (nella mia non c’è, non perché l’ho tolto ma perché nessuno l’ha messo e io non ne ravviso la necessità di mettercelo ). Hai ragione riguardo al fatto che loro ci impongono, quando andiamo nei loro paesi, di indossare il burqa o quanto meno di coprirci la testa ed è altresì vero che pure io, come te, non tollero che loro non rispettino le nostre usanze, tant’è che quando la Santanché tentò di strappare il velo a una musulmana a Milano io fui fra le prime ad applaudire, benché detesti la Santanché.

Il problema è che loro queste imposizioni credo che ce li abbiano per legge, mentre noi, paesi democratici, non ce l’abbiamo scritto in nessun codice che dobbiamo tenere il crocefisso in classe o andare in giro senza burqa. Riguardo al velo ad esempio, ricordo benissimo come da noi almeno fino al Concilio Vaticano II, prima della riforma della messa, era “obbligatorio” entrare in chiesa con la testa coperta (retaggio di quella cultura orientale che voleva la donna sottostare al marito, così come ribadisce anche San Paolo nelle sue lettere? Boh), era disdicevole indossare i pantaloni e ancora più scandaloso entrare in chiesa coi pantaloni. Col tempo certe “esteriorità” sono andate perse, evoluzione? Non saprei. Forse tutto dipende da come uno vive la Sua Fede, la sua condizione di vita religiosa. Io non sono atea ma non mi sento nemmeno cattolica. Quel cattolicesimo spocchioso dei parroci che predicano bene e razzolano male. Amo Cristo e preferisco definirmi “cristiana”, di quella cristianità che appartiene alla prima chiesa ed a San Francesco d’Assisi (sarà perché sono cresciuta ed ho studiato in un collegio francescano? Mi sa di si). Detto questo, io credo che dare importanza a ciò che pensano gli estremisti islamici è fare il loro gioco. Accettare la loro provocazione innescando un braccio di ferro che può solo logorare la nostra energia che può essere spesa in modo migliore. La migliore risposta che si può dare in questi casi è “ignorarli”, fare finta che non abbiano parlato. Anche i Testimoni di Geova sollevano polemiche in tal senso ma noi siamo un Paese che ha, nella sua Carta Costituzionale, propugnato la libertà di fede senza nessuna discriminazione. E’ questo che dobbiamo considerare al di là delle proprie convinzioni, non credi? Purtroppo siamo un paese dalle mille contraddizioni.
Riguardo al fatto che il crocefisso lo si trovi ovunque negli uffici di Stato non penso che sia stato messo lì per dire io sono cristiano, è un’usanza che risale chissà a quale periodo della storia e che io vedo solo come una “sottomissione” dello Stato alla Chiesa, come un’ingerenza papalina nel potere temporale e non come una manifestazione del sentire cristiano e qui ci sarebbe da aprire un altro capitolo su queste “esternazioni” religiose che sono andate a sostituire quelle pagane, così come i templi dei greci e dei romani sono stati abbattuti o trasformate in chiese… La questione è spinosa e molto delicata in quanto si va ad innescare una diatriba tra cultura dominante e cultura subalterna.

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Stakanovismo cinese


stakanovista-del-lavoro-in-metroSe i cinesi sono diventati così ricchi e potenti sconfiggendo il sistema comunista una ragione c’è e va ricercata lì dove a noi non conviene: Nello stakanovismo del lavoro. Noi vogliamo lavorare tutti dietro le scrivanie e nemmeno più con le penne, per non sporcarci le mani, ma con i computer portatili, con gli ipad che con le macchine da scrivere. La “Rivoluzione Industriale” che nell’800 portò allo spopolamento delle campagne sta sempre più portando alla desertificazione del Paese con la tecnologia avanzata. Finito di urbanizzare le campagne c’è rimasto ben poco verde e quello che c’è è abbandonato all’incuria. Tutto giace sotto le macerie dell’abbandono, ma dico vi guardate mai attorno? Li vedete gli edifici putrescenti, i grandi Palazzi Rinascimentali che cadono a pezzi? Li vedete i Monumenti, le Fontane opera dei Nostri grandi artisti rifugio dei piccioni? Le vedete le nostre campagne abbandonate, le nostre montagne aride e senza pascolo su cui girano in fila indiana pale eoliche? No, dico le vedete queste cose o siete ciechi?

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Giovani e Lavoro


lavoro1Parlo ai giovani. Se hai abbandonato la scuola senza esserti laureato, se hai scelto indirizzi universitari che non danno sbocco in nessun campo del lavoro prendetene atto e andate a fare altro. Aprite un ristorante, fate i camerieri, i commessi, gli operai. Sono lavori richiesti anche qui senza bisogno di andare all’estero. Che poi mi spiegate perché se andate all’estero accettate anche di pulire i cessi e non tirate in ballo la laurea mentre in Italia vi presentate con questa in mano? Perchè fate gli schizzinosi nel VOSTRO PAESE che sta morendo e non lo fate nei paesi che grazie a voi si vanno arricchendo?

Ricordo, se non sbaglio e la memoria non mi inganna, che negli anni 70 quando non c’erano segni di ripresa nacquero le famose “Cooperative rosse” in quel dell’Emilia Romagna. Certo nel tempo sono diventati capitalisti ma forse, visto che la storia non è altro che un corso e ricorso come diceva il Vico, perché non tornare a quella “politica”? Parlo a tutti i C.I., a quelli che non ce la fanno a tirare avanti con 800 euro al mese, cosa aspettate a unirvi ed a riaprire quelle fabbriche che industriali senza scrupoli ed attenti solo al loro portafoglio hanno chiuso esportandolo nei paesi dell’est e del sud-est asiatico? Smettetela di lamentarvi e lanciare strali contro chi un lavoro ce l’ha. Mettete a tacere l’invidia, la gelosia… risuscitate il VOSTRO ORGOGLIO nazionalistico e di individui che hanno muscoli e cervello e diamoci na mossa, perdindirindina, stamane! Sveglia!!!!!!!!!!!!!
In Sicilia c’è un detto: Ogni figateddu i musca è sustanza (ogni fegato di mosca è sostanza)… Tanti fegati messi insieme sfamano e saziano. Smettiamola di guardare lontano, contentiamoci di ciò che possiamo realizzare per campare. Inutile sognare macro crociere e transatlantici, contentiamoci anche di un salvagente per stare a galla come si è fatto nel dopoguerra… Non sono tempi di ricchezza per nessuno. Non sognate Principi azzurri che vi portino nei loro castelli né Principesse che vi tramutino in Principi. Il tempo dei sogni è finito! Raccogliete i cocci e incollateli. Con pochi mezzi si, ma che vi ridanno la VOSTRA DIGNITA’ …

Quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare. Poco importa chi l’ha detto ma così è. Come diceva Totò: Siete uomini o caporali? Combattete e mostrate che gli attributi ce li avete e che non servono solo per c…. e!

Stiamo sempre a guardare l’erba del vicino credendo che sia più verde e così facciamo appassire la nostra. Questa è la banale verità!

L’Italia è il Paese più bello del Mondo l’unica cosa che manca è la Coscienza CIVICA e l’Amore per il Paese. Per questo il degrado avanza.

[#AngeliKaMente in trincea e col fucile spianato pronta alla riscossa, stamattina va cosi: Avanti Tutta! ]

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L’Italia vista da fuori – I peggiori stereotipi all’estero. Quello che le statistiche non dicono. – Forchielli Pensiero –


Amo leggere, chi mi conosce lo sa, ma sopratuttto amo leggere persone che stilano, di proprio pugno, con non solo una grande onestà intellettuale ma anche con tanta lucida eleganza la loro visione del Mondo e di noi nel Mondo. Quel concetto che “l’Italia non è l’ombelico del Mondo” mi ha colpito il cervello già la prima volta che lo sentì espresso da Alberto Forchielli il 18 Marzo del 2013 a Piazza Pulita. Tutto il seguito è una lucida analisi del nostro Paese visto da un cittadino del Mondo qual è il nostro. A questa analisi faccio tanto di cappello e mi inchino non solo per il contenuto ma anche per lo stile. Quando Forchielli parla col cuore è al cuore di ciascuno dei suoi lettori che colpisce. Chapeau…

21Alberto Forchielli, Osservatorio Asia

Ho vissuto 30 anni all’estero, quindi più di metà della mia vita. Sono un cittadino glocal: parte global, il resto local. Sono attaccato alla mia genesi – quella meravigliosa striscia di terra, la mitica Via Emilia tra Bologna e Imola – ma ho lavorato in Europa, Stati Uniti, America Latina e Asia. Ancora oggi mi divido tra la Romagna, Boston, Monaco di Baviera e Hong Kong. Soprattutto ho interloquito con stranieri. Non sono mai stato “un italiano all’estero” nel senso tradizionale. Si dice nel gergo internazionale: “When in Rome, do as the Romans do”. L’ho fatto non solo nella Città Eterna, quando lavoravo con il prof. Romano Prodi allora Presidente dell’IRI e con il prof. Beniamino Andreatta già Ministro del Bilancio, Esteri e Difesa, ma ho interpretato autenticamente l’espressione ovunque mi trovassi. Ho vissuto all’estero con i locali, cioè con quelli che a miei occhia sarebbero potuti apparire come “stranieri”. Il lavoro mi ha poi condotto a documentarmi, a mettermi in relazione con stili diversi, abitudini all’apparenza sconcertanti, a trattare in definitiva con chi, dal suo territorio, poteva giudicare me e il mio paese d’origine. Sono dunque in grado di dare un quadro ragionato sulla percezione dell’Italia all’estero, una riflessione intrisa di competenze e di conoscenze. È un bagaglio di nozioni legate da un filo di idee conclusive e non preconcette. Quello che penso e scrivo è frutto di conclusioni, non di premesse. Ci sono valutazioni che valicano le rilevazioni statistiche. Queste ultime sono valide, ma talvolta insufficienti o non veritiere. Se non fosse così, i Musei italiani sarebbero i più visitati al mondo, le rovine di Pompei le più sicure, i centri storici delle città italiane i più attrezzati. “Gli uomini preferiscono le bionde” recitava il titolo di un film, per poi concludere “ma poi sposano le more”. L’Italia è percepita come il più grande serbatoio culturale, ma poi i turisti, gli intellettuali, gli studiosi, preferiscono la Francia.

La prima cosa da espungere dalla nostra mente è la nozione che tutti gli stranieri non vedano l’ora di essere come noi. È questo il peggior retaggio nazionalista. Non siamo, e soprattutto non veniamo considerati, l’ombelico del mondo. Da dove deriva questa nostra esaltazione? Dallo scambiare i nostri sogni con la realtà. Siamo persuasi che tutti gli italiani frequentino le Università, visitino le mostre, suonino gli strumenti, vestano Giorgio Armani, leggano il Financial Times, mangino ogni giorno le tagliatelle fatte in casa, bevano i vini migliori venduti a un prezzo accessibile, camminino in centri storici immacolati, assaporino il miglior espresso, e ovviamente siano impiegati in lavori gratificanti, come il fashion design. Gli altri – quelli che ci giudicano – sono condannati dal tempo inclemente, dal grigiore della fabbrica, dalla fatica dello studio, dalla ripetitività della burocrazia. Appena possono vengono in Italia, a godere del sole e delle spiagge, a mangiare la pasta al dente, a divertirsi con i giovani italiani nelle discoteche della riviera. Questa idea, in declino ma dura a morire, è sbagliata, controproducente, superficiale, al limite della xenofobia.
Nell’opinione della gente comune, quella che si chiama “immaginario collettivo”, l’Italia è vista come uno straordinario laboratorio di beni di consumo. Nel nostro paese, si ritiene con fondatezza, si concepiscono i migliori articoli che allietano la nostra quotidianità. Sono i due macrosettori più conosciuti del Made in Italy: il sistema-casa e il sistema-persona. Al primo appartengono i marmi, le piastrelle, i mobili, l’illuminotecnica, i rubinetti e le macchinette per il caffè. La venerazione per questi prodotti si scopre all’ingresso nel paese, dal doganiere al poliziotto, dal tassista al manager dell’albergo. Gente semplice che ama l’Italia attraverso i suoi prodotti. Anche i professionisti lo fanno: gli ingegneri apprezzano l’innovazione dei progetti, gli architetti l’armonia delle forme, i tecnici il trattamento dei materiali. La stessa valutazione si applica al sistema-persona: tessile, abbigliamento, calzature, pelletteria, gioielleria. Se si aggiungono i prodotti alimentari e la cucina si completa la cornice. L’Italia sembra un paese dalla straordinaria qualità della vita: invidiato, apprezzato, blandito, imitato.

Il quadro ha bisogno di molte correzioni. Innanzitutto non tutto il Made in Italy è frutto di ingegno. Nei prodotti che usiamo ci sono fango, sudore e lacrime. Noi scomodiamo Michelangelo per ogni sciarpa, Raffaello per ogni cravatta, ma ci sono anche le operaie alle macchine, i custodi dei magazzini, gli autisti dei camion, i contabili dei bilanci. Sono quelli che rendono praticabile un sogno, vincenti la scommessa della qualità, “del bello fatto bene”. Pensiamo che il genio sia ispirazione, mentre molto spesso è disciplina. All’estero ammirano la prima, non sempre la seconda. E poi non bastano le merci a suscitare ammirazione, un tramonto spettacolare a generare imitazione. La qualità della vita è fatta anche di tante altre cose. Noi le sottovalutiamo, all’estero le migliorano. È meglio un palazzo fatiscente del 1700 o un edificio pulito del 1900? Preferiamo un’isola pedonale confortevole e rispettata oppure un parcheggio con le ruote sul basamento di una fontana? Non sto esagerando, è la semplice visione delle cose che impone queste riflessioni. Prendiamo il rapporto tra gli Statunitensi e le opere d’arte. Se si vistano le Gallerie americane prevale il senso della collezione privata. Ricchi e incolti capitalisti celebrano il loro successo con acquisti indiscriminati di opere d’arte. Sublimano la loro mancanza di storia con capolavori che non sono il frutto della loro vicenda. Nelle sterminate praterie o in costruzioni ultramoderne collocano tesori di altri tempi. Si impadroniscono della cultura, senza averla vissuta. Noi invece…I nostri musei sono chiusi per mancanza di personale, mentre i giovani laureati in architettura e archeologia non trovano lavoro. Capolavori sterminati giacciono negli scantinati, riposano impolverati, esclusi al pubblico e non ancora catalogati. Sarebbe facile ricordare la gestione di Pompei. Ora poniamoci una domanda senza retorica: chi ama le opere d’arte? Chi le valorizza? Un paese che le detiene e le fa marcire nelle cantine, ne impedisce la vista, fa crescere le ragnatele sui quadri, lascia rubare le tele nelle chiese, oppure chi – non avendo nulla – le acquista, le mantiene, le espone, le rende fruibili. Nel mondo i musei sono organizzati, percorribili, con personale adeguato. Per vedere gli straordinari capolavori italiani bisogna viaggiare all’estero. Non sarebbe ora di smettere di considerare gli altri dei bovari, buzzurri arricchiti mentre l’Italia gronda di arte e cultura? Chi le ama di più, dunque? Se la risposta non è quella tradizionale, ne discende una verità lampante: per un giovane storico dell’arte è più facile trovare lavoro all’estero, anche e soprattutto per la sua competenza sui capolavori italiani.

La stessa capacità si può applicare alla cucina. L’Italia non riesce a proteggere i propri prodotti, ingabbiati in sigle incomprensibili. La pizza è ormai associata ai grandi marchi come Pizza Hut o Domino Pizza. Appartiene alla “cucina internazionale”, dove ogni abbinamento è possibile. Il caffè è predominio di Starbuck e Nespresso, il cappuccino una bevanda che si beve ogni ora del giorno. Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che i profitti non rimangono in Italia. I menu sono italiani, i nomi mal pronunciati da volenterosi camerieri stranieri, i prodotti hanno un’ “italian sounding”. Il prestigio, la tradizione della cucina italiana rendono ricchi i ristoratori intraprendenti. Di nuovo: chi ama il Made in Italy alimentare: chi lo dissipa o chi, arricchendosi, lo diffonde? Di conseguenza, perché non trovare lavoro all’estero se si è cuochi, sommelier, camerieri, maître? A New York i migliori ristoranti sono italiani, a Tokyo la loro qualità è leggendaria, a Shanghai vendono “parmesan cheese” prodotto in Australia, nel Golfo i pizzaioli sono bengalesi. Non sono queste opportunità di lavoro? Una o due generazioni fa non si iniziava da camerieri in Germania per poi aprire i ristoranti più chic lungo il Reno?

Non è solo l’origine a determinare la qualità, il luogo di produzione a causare il tutto esaurito. Non basta la bellezza per essere attraenti, bisogna offrire confort e sicurezza. Anche poter parcheggiare è qualità della vita, così come ricevere una ricevuta, un conto adeguato. Se bisogna prendere la metropolitana di Roma per gustare un buon gelato, spesso si rinuncia. Il prossimo anno, lo stesso gelato sarà gustato ad Amsterdam. Se l’ordine pubblico vacilla, se la sicurezza nelle strade non è garantita, se l’illuminazione è carente, le conseguenze sono immediate: gelatai, elettricisti, guide turistiche, troveranno lavoro dove c’è domanda, cioè altrove.

Esiste infine un altro aspetto del Made in Italy che non crea lavoro in Italia. Esso viene esaurito con la percezione dei beni di consumo. “Made in Italy” sono anche i torni, i trapani, le macchine tessili. Gli straordinari beni di consumo italiani non sarebbero stati possibili senza l’industria che forniva i macchinari per la trasformazione delle materie prime. Un inestimabile patrimonio ha dato linfa all’export italiano, una miscela sapiente di tecnici, ingegneri, operai specializzati. Questo è stato il nerbo del miracolo italiano: fare prodotti affidabili, durevoli, di qualità ma a prezzi contenuti. Questo tesoro – spesso trascurato a favore del più accattivante – oggi si direbbe glamour – Italian Style è poco conosciuto all’estero. Ad esclusione degli addetti ai lavori, pochi identificano l’Italia con la meccanica strumentale. Approfondite indagini svolte sull’opinione pubblica internazionale relegano l’immagine del nostro paese agli stereotipi della moda, dell’alimentazione, del campionato di calcio. Eppure le nostre facoltà di Ingegneria ogni anno valorizzano talenti indiscutibili. Abbiamo preferito tuttavia diffondere il fascino della lingerie, piuttosto che la complicazione di un centro di lavoro a controllo numerico. Oggi la meccanica trova un doppio ostacolo: la recessione in casa e la concorrenza dall’Asia. Ovviamente i due fenomeni sono collegati. Cosa può fare dunque un fresatore, un ingegnere, un meccanico? Seguire il lavoro dovunque sia disponibile.

La simpatia che il nostro paese genera, lo abbiamo visto, non ha risvolti occupazionali. Siamo percepiti come gaudenti anche se non possiamo permettercelo, a contatto con la bellezza anche se non la tuteliamo. Siamo accurati su alcuni campi (ad es. il cibo) ma siamo approssimati nella gestione del bene comune. È l’immagine classica dell’Italia e degli Italiani. Può essere certamente superficiale, ma è radicata da decenni di rilevazioni. Tra i tanti luoghi comuni, quello meno banale rileva una percezione speculare tra Italiani e Tedeschi: i primi rispettano i secondi ma non li amano; i secondi amano i primi ma non li rispettano. È un guaio che nella crisi amore e rispetto tendano a unificarsi nella creazione di posti di lavoro. Su questo versante, al contrario degli scontri calcistici, la Germania è nettamente avanti all’Italia.

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Scriviamo scuola o squola?


scuolaSi dice che Socrate solo col diaologo era in grado di far enunciare il teorema di Pitagora a uno schiavo ignorante e analfabeta. Capacità socratica che io ho sempre ammirato, nonostante siano passati secoli da quando il concetto è stato espresso. Alla base non c’era l’insegnamento considerato come travaso di conoscenze dal Maestro all’allievo ma il “dialogo”. Dialogo deriva dalle parole greche dià, “attraverso” e logos, “discorso”. Solo attraverso il discorso passa la comunicazione in senso lato ma passa principalmente la capacità di “ragionare” intorno e sulle cose. Durante la sua storia la comunicazione si è andata evolvendo uscendo dagli ambienti circoscritti in cui cresceva il giovin signore che comunicava con i suoi pari attraverso le epistole, mentre il volgo, il popolino ignorante trasferiva le sue conoscenze di ordine pratico (dal periodo della semina a quello per tosare le pecore e come farlo) soltanto oralmente e da padre in figlio. Possiamo dire che c’erano due mondi, due culture diverse e due diversi modi di fare e trasmettere”cultura”. Uno, quello dei signorotti, procedeva in linea circolare e uno, quello del popolo, in linea retta. Questo accadeva principalmente in Italia e si è protratto a lungo grazie al Potere esercitato dalla Chiesa sullo Stato. Le disparità sociali incrementavano e alimentavano la disuguaglianza sociale tenendo sotto il gioco dell’ignoranza il popolino che non sapeva né leggere né scrivere ma sapeva benissimo far di conto (sarà per questo che si diceva: Contadino scarpe grosse e cervello fino?). Mentre in Italia, e nei paesi a cultura fortemente cattolica, il popolo bivaccava in Germania una grande mente illuminata, stanco di ipocrisie cattoliche, ha il coraggio di bruciare una bolla papale e di fare stampare e distribuire – grazie anche all’avvento delle prime forme di stampa ideate da Gutenberg – la Bibbia che diventa il libro dei “poveri” che “imparano” a leggere. Chi ha studiato Pedagogia, e mi riferisco a tutti coloro che hanno fatto studi Magistrali prima e Licei Pedagogici dopo, conosce benissimo l’evoluzione di tale Scienza-Disciplina. Scienza, intesa come “conoscenza”, studio dell’ Educazione dell’uomo nella sua interezza. Chi ha studiato Pedagogia conosce i nomi di Socrate, Quintiliano, Lullo, Comenio, Locke, Rousseau e altri. Conosce i maggiori pedagogisti dell’800: Pestalozzi, Herbart, Aporti. Ha studiato ed approfondito i pedagogisti del ‘900, fra i quali cito, in ordine sparso, Montessori, le sorelle Agazzi, Steiner, Kerschensteiner, Dewey, Decroly, Claparède, Korczak, Makarenko, Ferrière, Hahn, Neill, Freinet, Bruner, Freire; personaggi non specificamente pedagogisti, ma che si sono comunque occupati di pedagogia: Baden-Powell, Gentile, Gramsci, don Milani, Piaget, Skinner e “tutti” gli psicologi moderni da Piaget a Vygotsky, da James a Pavlov, da Freud ad Adler. Chi ha studiato per diventare “Maestra/o” conosce tutte le Riforme della Scuola Pubblica, da quella del Gentile datata 1925 e rispolverata dalla Beata Ignorantia alias la Gelmini a quelle costruite in questi ultimi anni dai prof universitari che senza aver mai messo piede in una scuola Primaria ci hanno calato le loro belle teorie toutcourt. E ancora potrebbe bastarmi la cosa se non fosse che lo sviluppo di tale scienza fosse proceduto su due binari. Uno era quello della conoscenza e quindi studio, ricerca ed evoluzione teorica della disciplina l’altro sottostimato, sottopagato, sfruttato, vituperato era quello di chi doveva farsi portatore di tale disciplina o meglio il dispensatore della Conoscenza. Il Pedagogo in senso stretto. Quello che si occupa del processo didattico-educativo dell’individuo del futuro. La cosa assurda è proprio questa. Noi formiamo gli uomini del domani. Quelli che guideranno il Paese eppure, proprio noi, siamo umiliati ed offesi da secoli. Già dall’antica Grecia gli uomini hanno sempre tenuto in così grande considerazione l’intelletto, la mente dei loro belli e adorati pargoli che ne affidavano la loro crescita allo schiavo… Pedagogo appunto, sempre dal greco: colui che conduce il fanciullo. Col tempo i compiti e le mansioni dello schiavo si sono allargate, gli sono stati dati sempre più responsabilità ma sempre meno considerazione. L’insegnante, il professore, pur studiando, aggiornandosi, inventandosi e inventando è sempre stato e continua ad essere un “servo dello stato” e di conseguenza un servo della società. La cosa in sé non mi infastidisce e non mi infastidirebbe se trasformo il sostantivo in verbo “servire”… Quindi io svolgo una funzione sociale di grandissima importanza. Noi “serviamo” alla società in quanto ci occupiamo della società. In Giappone si dice che ci sia solo una classe sociale che non si inchina davanti all’Imperatore: I Maestri. Essi infatti ritengono, ed a ragione, che sono loro che hanno formato il loro Imperatore.
Noi occidentali, democratici, “Liberali”, invece, diciamo che i docenti sono: ammortizzatori sociali. In Italia c’è il vezzo, ma anche altrove del resto, di sindacare di tutto e su tutto. La cosa di per sé è ammirevole, vuol dire che la nostra mente, i nostri neuroni, funzionano alla grande e più funzionano più nascono idee… Il problema è l’uso che si fa di queste idee. Il problema è quando si vuole entrare nel merito dei problemi. Nessuno riesce a stare dentro i parametri delle sue “competenze” e straripa nelle competenze, nei campi di competenza degli altri. Così abbiamo avvocati che dicono come insegnare e cosa insegnare. Casalinghe che prescrivono medicine perché “a me ha fatto bene”… etc.. etc… Adesso si parla di “merito” come del giusto riconoscimento per fare carriera. La “meritocrazia sociale” che viene sventolata come una medaglia al valore… Non so voi ma a me questa parola mi genera prurito. la vedo come l’ennesima inculata… sarà perché fa rima con “burocrazia”?
Entrerà anche questa nell’ottica sistemistica? E non pensate che così facendo non diventerà anche questa la forma peggiore di discriminazione sociale impantanandosi in chili e chili di scartoffie da cui rimarremo schiacciati?
Ho tante altre cose da dire. Avrei tante belle strigliate da fare a TUTTI, proprio TUTTI gli italiani ma adesso sono stanca, avvilita e demotivata prima ancora che inizia l’anno scolastico. Sarà la depressione post-scuola, come il post-partum e forse ci sarà solo un modo per farmela passare: Tornare coi miei bambini, in classe dove ogni giorno è un giorno nuovo. Dove tutto quello che hai preventivato, programmato va a farsi strabenedire, modificato dalle loro domande, dalla loro curiosità dalla loro voglia di conoscenza a voi signori vi lascio le vostre sterili, miopi e pidocchiose idee…
Mentre coi miei alunni recitiamo la poesia di Ugo Tognolini:
Mestra insegnami il fiore e il frutto
– Col tempo ti insegnerò tutto.
Insegnami fino al profondo dei mari
– Ti insegno fin dove tu impari
Insegnami il cielo, più sù che si può
– Ti insegno fin dove io so
E dove non sai?
– Da lì andiamo insieme
Maestra e scolaro, un albero e un seme
Insegno ed imparo, insieme perché
Io insegno se imparo con Te!
Buon anno a tutti i colleghi che so si faranno un mazzo tanto per aiutare gli allievi a crescere e maturare il loro pensiero sociale, a molti verrà l’orticaria a causa di genitori invadenti, saccenti, supponenti e presuntuosi che si vogliono sostituire a loro ma tenete duro, serrate i denti e pensate solo a loro: Gli alunni.

Buon Lavoro!

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La chiave giusta c’è per il Paese


Immagine6e non è l’apriscatole grillino.

Pur se non vivo aspettando il Messia, come qualcuno ha detto stamane sulla mia pagina di FB, cerco qualcuno che mi dia chiare indicazioni su cosa fare per la mia amata Italia, per il mio povero Paese,  ma principalmente per tutti gli italiani senza lavoro e senza speranza di trovarne uno e così gira che ti rigira mi ri-imbatto nel pensiero di Alberto Forchielli. Lui sembra che le idee ce li abbia chiarissime, mi chiedo perché mai non le proponga a Napolitano. Lui può farlo grazie alla posizione privilegiata in cui la Vita l’ha collocato. Nell’ attesa che mi si sveli il mistero riposto, copia-incollandolo da un altro mio post, il Suo pensiero per risanare il Paese e rilanciare l’economia:
“Esaustivo,chiaro e condivisibilissimo stamane il “Forchielli Pensiero”.
La soluzione c’è ed è alla portata di tutti gli uomini di buona volontà che devono smetterla di perdersi in chiacchiere demagogiche e dietrologiche.
La soluzione c’è, condivisibilissima da tutti quegli italiani che sono stanchi di raffazzonature. Di vedere continuamente che la gente tenta di tappare i buchi delle falle in un territorio che ha sempre più l’aspetto lunare che umano.
E se io, arrivata alla fine del mio pensiero, dicessi: #Alberto #Forchielli for President… vi sembro esagerata o lecca—culo?
Leggete e sono certa che, giunti alla fine, lo griderete anche voi insieme a me.:
Riflessioni in libertà per migliorare l’assetto competitivo del paese (ovviamente non esaustive ma abbastanza prioritarie)
1) Lo stato deve essere meno presente. Qui non è solo una questione di ridurre gli sprechi o i fannulloni (che si potrebbero ridurre con una riforma semplice del pubblico impiego che annulla tutti i contratti dei dipendenti pubblici e li fa rientrare nelle fattispecie dei contratti privati) ma è proprio una questione che, stante la situazione attuale, molti servizi vanno ridotti o eliminati. Il sistema delle licenze va abolito, tutte le licenze, tutte. I diritti acquisiti vanno picconati tutti. Il concetto è che lo stato deve amministrare la cosa di tutti e deve fornire quei servizi che singolarmente non riusciremmo a valorizzare correttamente, sanità, welfare, scuola, infrastrutture, e poco altro. I risparmi che verrebbero generati devono essere investiti al 80% nella riduzione del debito e per il 20% in riduzione di tasse. Quando in una famiglia i soldi mancano si tira la cinghia, si mette da parte, si ripagano i debiti, si rimette ancora da parte e poi si investe. Il padre di famiglia che risparmia sulla famiglia per ubriacarsi di solito va mandato fuori casa.
2) L’appetibilità dell’italia va rilanciata.
a) Giustizia più veloce. Che il giudice legga le carte e proceda in tempi rapidi al primo grado di giudizio (massimo 6 mesi), come fanno i giudici di pace. Poi ci sarà il secondo grado e la cassazione in caso. La giustizia è deve essere veloce e uguale per tutti nonchè giusta. E’ la base della convivenza e del diritto.
b) Semplificazione. Deve essere facile, semplice, comprensibile cosa va fatto e qualcuno deve decidere. Che venga ripristinata l’onorabilità della responsabilità personale nelle decisioni. Il concetto è che nessuno investe in un paese dove non si capisce nulla.
c) Il mercato del lavoro deve diventare un mercato dove sia facile e poco costoso assumere e licenziare. Il concetto è che le aziende hanno bisogno di lavoratori bravi e quando li hanno li tengono.
3) Scuola. Il sistema scolastico va ancora riformato, semplificato e reso più internazionale nella forma. Gli insegnanti devono essere valutati nel merito. A parte casi molto rari va abolito il valore legale del titolo di stato. La scuola deve formare talenti non sfornare impiegati di quart’ordine che non vedono l’ora di trovare un lavoro sicuro dietro una scrivania per tutta la vita. Se non vogliamo inventarci un sistema scolastico italiano copiamone uno all’estero. Io farei le elementari per 6 anni e poi le superiori per 6 anni (risparmiando un anno di studi). Istituti tecnici più o meno come sono ora, poi 3 indirizzi, scientifico, umanistico, tecnologico e poi un sistema universitario di forte specializzazione.
4) Evasione fiscale. Qui mi scappa da ridere. basta avere la volontà di fare controlli e il sistema dell’evasione fiscale si riduce di molto solo controllando meglio. Poi basta guardarsi intorno e vi sono decine di sistemi funzionanti nel mondo da cui copiare (senza inventarsi la supercazzola del pos obbligatorio che aumenta ancora le tasse).

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Panararu! (dai ricordi dell’ultima guerra)


limoni1906– Panararu! Ammia! Ohoo!…

Così chiamavano degli uomini, vestiti coi ruvidi panni della fatica, arrampicati sui verdi e frondosi alberi dei limoni, carichi dei bei frutti gialli, che essi staccavano delicatamente, per non farne sprizzare la preziosa essenza della lucida buccia, disponendoli in panieri foderati di grossa tela, pendenti da rozzi uncini attaccati qua e là nei rami.

– Panararu! Ammia! Ohoo!…

Era come un canto dalle lunghe note meste e piane, che echeggiava, a intervalli, in uno dei vasti agrumeti di Sicilia, scendendo giù per la vallata verdeggiante, lambita dal mare azzurro e cheto, dove dei gabbiani candidi, sfiorando col volo capriccioso le onde tremule, erano intenti alla pesca.

A quello strano appello, dalla cadenza dolce e malinconica, accorrevano a stuolo, sotto gli alberi bassi dall’oscuro fogliame, i panarari: dei bambini dagli otto ai dieci anni, laceri, scalzi, ma vispi e lieti come uccellini, che avevano l’incarico di togliere dagli uncini pendenti da una fune, i panieri già pieni di frutti fragranti, portarli giù sul prato verde di trifoglio, e ammucchiare i limoni, così, come piccole montagne d’oro, e poi tornar di corsa sotto l’albero profumato di zagara, per appendere nuovamente agli uncini oscillanti i panieri già vuoti che presto tornavano a riempirsi.

Paulu era il più solerte ed attivo fra i panarari di quella ciurma: bel bambino sui nove anni, bruno, dall’occhio nero, egli aveva il padre sotto le armi, e lo pensava sempre mentre lavorava, dall’alba al tramonto, nei verdi giardini fioriti. Lavorava e ricordava Paulu, e con lui lavorava e ricordava la nonna: quella vecchietta arzilla, dalla testa grigia, che laggiù, sul prato verde, seduta accanto ai mucchi gialli dei limoni, tagliava sollecitamente il picciuolo al frutto e , con uno sbalzo, come se fosse leggera palla, lo faceva saltare in grembo ad una compagna, la quale, dopo averlo girato e rigirato fra le mani, guardandolo attentamente per vedere se il frutto era sano e senza macchia alcuna, lo avvolgeva gentilmente nella carta leggera, a fiorami, deponendolo in una cassetta di legno con gli altri.

Le casse di limoni, intanto, si ammucchiavano anch’esse, e vi era un operaio che le chiudeva e le inchiodava, cantando allegramente.

Venivano poi i graziosi carretti siciliani, dipinti a gai colori, tirati da cavalli bardati di rosso, di verde, adorni di fiocchi azzurri e granellini d’oro; e le piccole e fragili casse erano trasportate alle stazioni ferroviarie più vicine, per andare lontano, lontano…

Paulu, ogni volta, guardava pensoso i carretti variopinti, che si allontanavano al trotto dei cavalli adorni di nastri smaglianti e, dacché era partito il suo babbo, rimaneva a fantasticare con strana malinconia…

Sapeva che quelle rozze casse avrebbero viaggiato molto: parte di esse dovevano andare nella lontana America, altre in Inghilterra, altre, infine, dovevano giungere in Isvizzera, passando per Milano.

Milano!… la p20140706_224121opolosa e bella città che aveva nel cuore, perché là trovavasi, ferito, in uno dei grandi ospedali, suo padre, e si trovava là da mesi, dopo aver valorosamente combattuto sulle montagne del Trentino.

Ora, quel giorno, compivano due mesi che il padre non scriveva più di suo pugno. Paulu era triste, non fischiettava più, portando, infilati nelle braccia robuste, i panieri pesanti di limoni, e guardava, con occhi mesti, la nonnina a testa china, zitta zitta, che tagliava presto presto il gambo ai limoni, palleggiandoli come un automa.

Povera nonna! Invano il cielo azzurro e senza una nube diceva che la primavera era giunta, invano le margheritine del prato occhieggiavano attorno a lei, profumando l’aria, il suo cuore era stretto, stretto, perché non sapeva più nulla del figliuolo, e notte e giorno si chiedeva quale poteva essere la ferita che faceva soffrire tanto il suo baldo artigliere, che si era guadagnato, altre volte, una bella medaglia d’argento laggiù in Libia…

Ohooo! Panararu! – Il tramonto era vicino ed il lavoro febbrile: Paulu, instancabile e vigile, correva primo all’appello, benchè si sentisse tanto triste; i suoi piedini scalzi andavano solleciti sul suolo ineguale ed erboso, portandolo da un albero all’altro, per staccare panieri, ed il suo pensiero andava pure lontano… Diverrebbe anch’egli, col tempo, un forte artigliere? Vedrebbe Milano, la rumorosa ed operosa città, che suo padre gli aveva descritto l’ altro anno, nei brevi giorni di licenza?

Correva, fantasticando, l’umile panararu, e non sapeva che il suo buon babbo era vicino; non sapeva che suo padre saliva, col cuore palpitante di emozione, il fiorito sentiero, che dalla valle conduceva alla collina, e si avvicinava al ben noto giardino, dove per tanti anni aveva lavorato durante la raccolta, e dove sapeva di trovare la madre e il figlioletto che anelava di stringere al cuore.

Oh! come tutto era verde! Le roselline di macchia costellavano le siepi dei fichidindia; le primule, già sonnacchiose, chiudevano i petali rosati accanto alle viole, ma le farfalle, ancora ingorde di miele, si cullavano con indolenza sui candidi cespi della zagara, mentre fringuelli e capinere raccoglievano il volo verso il nido lanciando dei trilli gioiosi.

Com’erano lontani gli alti picchi nevosi delle Alpi e le trincee oscure dove si viveva continuamente nell’ansia e nell’attesa!

– Viva l’ Italia! – il grido uscì sonoro dal forte petto del buon soldato, che tornava, forse per sempre, alla famigliuola, al suo paesello. Forse per sempre, sì!
– Viva l’Italia!- a quel grido saltarono lesti giù dagli alberi gli uomini occupati alla raccolta, corsero a frotta i vispi panarari intorno al soldato, corsero la madre e Paulu come inebetiti.

– Compari Giovanni!

– Figlio mio!

– Babbo!

Le diverse esclamazioni s’incrociarono con espressioni di giubilo e di sorpresa.

– Eccomi qui! – e non seppe dire altro il soldato reduce dalla grande guerra; poi, stendendo il braccio sinistro, strinse al petto la madre e il figliuoletto, baciando la testa grigia della vecchia e i ricci bruni del fanciullo.

Tutti avevano gli occhi molli di pianto; i panarari, un momento prima vispi e garruli come passerotti, erano ammutoliti a quel ritorno improvviso.

– E quella mano, la destra, perché la tieni nascosta dentro la giubba? – chiede la madre, scostandosi da lui e guardandolo fisso, palpitante ed ansiosa.

Giovanni non rispose, ma Paulu comprese tutto: era un ragazzo intelligente e perspicace, e già nel paese aveva sentito buccinare qualche cosa. Allora, alzandosi sulla punta dei piedini, baciò il braccio destro del padre, e delicatamente tirò, con le sue ruvide manine, da dove stava nascosta con tanta cura, una mano… che non aveva più dita!
Ma che importava? Il bambino la baciò lo stesso e pianse.

– Perché piangi, Paulu?… pensa quanti bambini come te non vedranno più il babbo ed io invece son qui, a te vicino, cuor mio!…20140706_230011

Ma le lacrime seguitavano a sgorgare dai grandi occhi di Paulu, egli non sapeva spiegarsi perché piangeva: era tanto commosso!

Poi disse, stringendosi ancora di più al padre:

– Saprò lavorare come voi, col tempo, e vi aiuterò come meritate, babbo, e vi vorrò ancora più bene!
– Figliuol mio benedetto, se sapessi che bene mi fanno le tue parole! Ma del resto io potrò lavorare ancora!
E l’umile soldato, sciogliendosi dal tenero abbraccio della madre e del figlio diletto, salì sorridendo la scala a piuoli, appoggiata al vicino albero, infilò nel braccio destro uno dei panieri vuoti e staccando, a uno a uno, con la mano sinistra i fragranti limoni, gridò lietamente, volgendosi ai fanciulli che stavano, meravigliati, a guardarlo col nasino in sù:

– Al lavoro! Viva l’ Italia! Panarari a me!

Il grido dolce e malinconico, come breve inno glorificante il lavoro, l’amor patrio, i più puri affetti, eccheggiò ancora nel vasto agrumeto, che il sole al tramonto avvolgeva di aurei veli; scese giù nella valle silenziosa, e si perdette nel mare lontano, su cui sorvolavano ancora i bianchi gabbiani.
(Clara Scoppa ,  Sotto il cielo di Sicilia – Palermo – Ant. Trimarchi – Editore , 1928 – Anno VI)

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Uomini soli entrati nella leggenda: Giovanni Falcone


1535397_560363940756266_7748069362730012850_nNiente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito. Accade quindi che alcuni politici a un certo momento si trovino isolati nel loro stesso contesto. Essi allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto.
Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.
In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.(Giovanni Falcone)

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Abbiate coraggio. Osate!


400_F_26667978_Hdi7lGAiQ9GZNrw3gz4GXqtO9tDasZ8zPerché c’è gente che vive del riflesso degli altri? Perché c’è così poca gente che non sa vivere se non attraverso gli occhi degli altri? Perché c’è gente che si illude miseramente di essere qualcuno solo se viene degnata dall’attenzione del potente di turno?
Siate Voi stessi!
Valere più di un altro/a dipende solo da Voi. Azionate il VOSTRO cervello e abbiate il coraggio di “essere”.
Osate!
Solo chi osa vola alto. Solo chi lotta contro la forza del vento, solo chi affronta le onde alte nuotando contro la corrente fortifica il suo essere.
Osate!
Buttatevi a capofitto nelle cascate. Nei vortici del mare in tempesta. Remate sempre contro corrente e vedrete il cambiamento in Voi stessi. La Vita è un atto di coraggio. Ha i suoi momenti di pausa, di stagnazione, di acquitrini in cui ci si impantana, è vero, ma abbiate l’accortezza di non rimanervi a lungo altrimenti vi troverete presto nel fango che il sole disidraterà rendendolo solo arido suolo…